mercoledì 25 febbraio 2015

Poe, eternità e delirio


Illustrazione di Gustave Doré


Il corvo di Edgar Allan Poe


Era una cupa mezzanotte e mentre stanco meditavo
su bizzarri volumi di un sapere remoto,
mentre, il capo reclino, mi ero quasi assopito,
d'improvviso udii bussare leggermente alla porta.
"C'è qualcuno," mi dissi, "che bussa alla mia porta -
solo questo e nulla più."

Ah, ricordo chiaramente quel dicembre desolato,
dalle braci morenti scorgevo i fantasmi al suolo.
Bramavo il giorno e invano domandavo ai miei libri
un sollievo al dolore per la perduta Lenore,
la rara radiosa fanciulla che gli angeli chiamano Lenore
e che nessuno, qui, chiamerà mai più.

E al serico, triste, incerto fruscio delle purpuree tende
rabbrividivo, colmo di assurdi tenori inauditi;
Sebbene ripetessi, per acquietare i battiti del cuore:
"È qualcuno alla porta, che chiede di entrare,
qualcuno attardato, che mi chiede di entrare.
Ecco: è questo e nulla più."

Poi mi feci coraggio e senza più esitare
"Signore," dissi, "o Signora, vi prego, perdonatemi,
ma ero un po' assopito ed il vostro lieve tocco,
il vostro così debole bussare mi ha fatto dubitare
di avervi veramente udito". Qui spalancai la porta:
c'erano solo tenebre e nulla più."

Nelle tenebre a lungo, gli occhi fissi in profondo,
stupefatto, impaurito sognai sogni che mai
si era osato sognare: ma nessuno violò
quel silenzio e soltanto una voce, la mia,
bisbigliò la parola "Lenore" e un eco rispose:
"Lenore". Solo quello e nulla più.

Rientrai nella mia stanza, l'anima che bruciava.
Ma ben presto, di nuovo, si udì battere fuori,
e più forte di prima. "Certo" dissi "è qualcosa
proprio alla mia finestra: esplorerò il mistero,
renderò pace al cuore, esplorerò il mistero.
Ma è solo il vento, nulla più."

Allora spalancai le imposte e sbattendo le ali
entrò un Corvo maestoso dei santi tempi antichi
che non fece un inchino, né si fermò un istante.
E con aria di dame o di gran gentiluomo
si appollaiò su un busto di Pallade sulla porta
si posò, si sedette, e nulla più.

Poi quell'uccello d'ebano, col suo austero decoro,
indusse ad un sorriso le mie fantasie meste,
"Perché" dissi "rasata sia la tua cresta, un vile
non sei, orrido, antico Corvo venuto da notturne rive.
Qual è il tuo nome nobile sulle plutonie rive?"
Disse il Corvo: "Mai più".

Molto mi stupii di udire quello sgraziato uccellaccio parlare così chiaramente,
sebbene poco senno vi fosse nella sua risposta - poca importanza;
poiché in nessun modo a nessun essere vivente
fino ad allora fu concesso di vedere un uccello alla sua porta -
uccello o bestia sul busto scolpito alla sua porta,
che portasse il nome "Mai più".

Ma quel corvo posato solitario sul placido busto,
come se tutta l'anima versasse in quelle parole,
altro non disse, immobile, senza agitare piuma,
finché non mormorai: "Altri amici di già sono volati via:
lui se ne andrà domani, volando con le mie speranze"
Allora disse il Corvo: "Mai più".

Trasalii al silenzio interrotto da un dire tanto esatto,
"Parole" mi dissi "che sono la sua scorta sottratta
a un padrone braccato dal Disastro, perseguitato
finché un solo ritornello non ebbe i suoi canti,
un ritornello cupo, i canti funebri della sua speranza:
Mai, mai più".

Rasserenando ancora il Corvo le mie fantasie,
sospinsi verso di lui, verso quel busto e la porta,
una poltrona dove affondai tra fantasie diverse,
pensando cosa mai l'infausto uccello del tempo antico.
Cosa mai quel sinistro, infausto e torvo anomale antico
potesse voler dire gracchiando "Mai più".

Sedevo in congetture senza dire parola
all'uccello i cui occhi di fuoco mi ardevano in cuore;
cercavo di capire, chino il capo sul velluto
dei cuscini dove assidua la lampada occhieggiava,
sul viola del velluto dove la lampada luceva
e che purtroppo Lei non premerà mai più.

Parve più densa l'aria, profumata da un occulto
turibolo, oscillato da leggeri serafini
tintinnanti sul tappeto. "Infelice" esclamai "Dio ti manda
un nepente dagli angeli a lenire il ricordo di Lei,
dunque bevilo e dimentica la perduta tua Lenore!"
Disse il Corvo "Mai più".

"Profeta, figlio del male e tuttavia profeta, se uccello
tu sei o demonio, se il maligno" io dissi "ti manda
o la tempesta, desolato ma indomito su una deserta landa
incantata, in questa casa inseguita dall'Onore,
io ti imploro, c'è un balsamo, dimmi, un balsamo in Galaad?"
Disse il Corvo: "Mai più".

"Profeta, figlio del male e tuttavia profeta, se uccello
tu sei o demonio, per il Cielo che si china su noi,
per il Dio che entrambi adoriamo, dì a quest'anima afflitta
se nell'Eden lontano riavrà quella santa fanciulla,
la rara raggiante fanciulla che gli angeli chiamano Lenore".
Disse il Corvo: "Mai più".

"Siano queste parole d'addio" alzandomi gridai
"Uccello o creatura del male, ritorna alla tempesta,
alle plutonie rive e non lasciare una sola piuma in segno
della tua menzogna. Intatta lascia la mia solitudine,
togli il becco dal mio cuore e la tua figura dalla porta"
Disse il Corvo: "Mai più".


E quel Corvo senza un volo siede ancora, siede ancora
sul pallido busto di Pallade sulla mia porta.
E sembrano i suoi occhi quelli di un diavolo sognante
e la luce della lampada getta a terra la sua ombra.
E l'anima mia dall'ombra che galleggia sul pavimento
non si solleverà mai più.

giovedì 19 febbraio 2015

Carducci, bellezza ed eroismo

Tramonto sul mare, Giovanni Fattori



San Martino di Giosuè Carducci


La nebbia a gl'irti colli
piovigginando sale,
e sotto il maestrale
urla e biancheggia il mar;

ma per le vie del borgo
dal ribollir de' tini
va l'aspro odor dei vini
l'anime a rallegrar.

Gira su' ceppi accesi
lo spiedo scoppiettando:
sta il cacciator fischiando
su l'uscio a rimirar

tra le rossastre nubi
stormi d'uccelli neri,
com'esuli pensieri,
nel vespero migrar.


lunedì 16 febbraio 2015

Pascoli, simbolismo e fanciullino

Il ponte di Langlois, Vincent Van Gogh



Lavandare di Giovanni Pascoli


Nel campo mezzo grigio e mezzo nero
resta un aratro senza buoi che pare
dimenticato, tra il vapor leggero.

E cadenzato dalla gora viene
lo sciabordare delle lavandare
con tonfi spessi e lunghe cantilene:

Il vento soffia e nevica la frasca,
e tu non torni ancora al tuo paese,
quando partisti, come son rimasta,
come l’aratro in mezzo alla maggese.


sabato 14 febbraio 2015

Lautréamont, l'immaginazione in rivolta

Renè Magritte,  Les Chants de Maldoror



I Canti di Maldoror del Conte di Lautréamont (o Isidore Lucien Ducasse)

Il nuotatore e la femmina di pescecane si trovavano al cospetto, lei da lui salvata. Si guardarono negli occhi per qualche minuto; e ciascuno si stupì di trovare nello sguardo dell'altro tanta ferocia. Girando in tondo, nuotando, non si perdono di vista e si dicono tra sé: "Finora mi sono ingannato; ecco qualcuno che è più malvagio di me." Allora, di comune accordo, di tra due acque, l'uno verso l'altra, con reciproca ammirazione, la femmina di pescecane scostando l'acqua con le sue pinne, Maldoror battendo l'acqua con le sue braccia; e trattennero il respiro, in una profonda venerazione, ciascuno desideroso di contemplare, per la prima volta, il proprio ritratto vivente. Giunti a tre metri di distanza, senza compiere il minimo sforzo, caddero bruscamente l'uno contro l'altra, come due amanti, e si baciarono con dignità e con riconoscenza, in una stretta tenera quanto quella di un fratello e di una sorella. I desideri carnali seguirono da vicino questa dimostrazione di amicizia. Due cosce nervose s'incollarono strettamente alla pelle viscida del mostro, come due sanguisughe; e, le braccia e le pinne allacciate attorno al corpo dell'oggetto amato che circondavano con amore, mentre il loro seno e il loro petto ben presto non furono più altro che una massa glauca dalle esalazioni di alghe; in mezzo alla tempesta che continuava a imperversare; nella luce dei lampi; avendo come letto di nozze l'onda schiumeggiante, trascinati da una corrente sottomarina come in una culla, rotolando, su se stessi, verso le profondità ignote dell'abisso, si unirono in un accoppiamento lungo, casto e schifoso!...Finalmente avevo trovato qualcuno che mi rassomigliava!...Lei aveva le mie stesse idee!...Ero al cospetto del mio primo amore!

lunedì 2 febbraio 2015

Brecht, dubbio ed esilio

Filosofo in meditazione, Rembrandt van Rijn



Lode del dubbio di Bertolt Brecht


Sia lode al dubbio! Vi consiglio, salutate
serenamente e con rispetto chi
come moneta infida pesa la vostra parola!
Vorrei che foste accorti, che non deste
con troppa fiducia la vostra parola.

Leggete la storia e guardate
in fuga furiosa invincibili eserciti.
In ogni luogo
fortezze indistruttibili rovinano e
anche se innumerabile era l'armata salpando,
le navi che tornarono
le si potè contare.
Fu così un giorno un uomo sulla inaccessibile vetta
e giunse una nave alla fine
dell'infinito mare.

Oh bello lo scuoter del capo
su verità incontestabili!
Oh il coraggioso medico che cura
l'ammalato senza speranza!

Ma d'ogni dubbio il più bello
è quando coloro che sono
senza fede, senza forza, levano il capo e
alla forza dei loro oppressori
non credono più!

Oh quanta fatica ci volle per conquistare il principio!
Quante vittime costò!
Com'era difficile accorgersi
che fosse così e non diverso!
Con un respiro di sollievo un giorno
un uomo nel libro del sapere lo scrisse.

Forse a lungo là dentro starà e più generazioni
ne vivranno e in quello vedranno un'eterna sapienza
e spezzeranno i sapienti chi non lo conosce.
Ma può avvenire che spunti un sospetto, di nuove esperienze,
che quella tesi scuotano. Il dubbio si desta.
E un altro giorno un uomo dal libro del sapere
gravemente cancella quella tesi.

Intronato dagli ordini, passato alla visita
d'idoneità da barbuti medici, ispezionato
da esseri raggianti di fregi d'oro, edificato
da solennissimi preti, che gli sbattono alle orecchie
un libro redatto da Iddio in persona,
erudito da impazienti pedagoghi, sta il povero e ode
che questo mondo è il migliore dei mondi possibili e che il buco
nel tetto della sua stanza è stato proprio previsto da Dio.
Veramente gli è difficile
dubitare di questo mondo.
Madido di sudore si curva l'uomo
che costruisce la casa dove non lui dovrà abitare.

Ma sgobba madido di sudore anche l'uomo
che la propria casa si costruisce.
Sono coloro che non riflettono, a non
dubitare mai. Splendida è la loro digestione,
infallibile il loro giudizio.
Non credono ai fatti, credono solo a se stessi.
Se occorre, tanto peggio per i fatti.
La pazienza che han con se stessi
è sconfinata. Gli argomenti
li odono con gli orecchi della spia.

Con coloro che non riflettono e mai dubitano
si incontrano coloro che riflettono e mai agiscono.
Non dubitano per giungere alla decisione, bensì
per schivare la decisione. Le teste
le usano solo per scuoterle. Con aria grave
mettono in guardia dall'acqua i passeggeri dl navi che affondano.
Sotto l'ascia dell'assassino
si chiedono se anch'egli non sia un uomo.

Dopo aver rilevato, mormorando,
che la questione non è ancora sviscerata vanno a letto.
La loro attività consiste nell'oscillare.
Il loro motto preferito è: l'istruttoria continua.

Certo, se il dubbio lodate
non lodate però
quel dubbio che è disperazione!
Che giova poter dubitare, a colui
che non riesce a decidersi!
Può sbagliare ad agire
chi di motivi troppo scarsi si contenta!
Ma inattivo rimane nel pericolo
chi di troppi ha bisogno.

Tu, tu che sei una guida, non dimenticare
che tale sei, perché hai dubitato
delle guide! E dunque a chi è guidato
permetti il dubbio!